Nella scorsa puntata si era accennato alla presenza, nei tragici avvenimenti di via Fani, di una moto Honda con due uomini a bordo, aspetto oggigiorno ancora oscuro e inspiegato della vicenda. A tal proposito l’ex Ispettore della Digos Enrico Rossi, nostro intervistato, entrò da protagonista nel caso Moro quando nel dicembre 2010 venne in possesso per ragioni del suo Ufficio di una lettera anonima precedentemente ignorata. In essa l’ignoto autore, che sostiene di essere uno dei due occupanti della moto, mette in relazione la presenza della Honda con la figura del colonnello Guglielmi, che era, tra le altre cose, istruttore militare dell’Organizzazione Gladio. L’allora Ispettore decise di vederci chiaro e cominciò le indagini, incontrando non pochi ostacoli lungo il cammino. L’ultima puntata della nostra intervista approfondirà proprio i temi legati alla moto Honda.

Quali problemi irrisolti pone la presenza in Via Fani della moto?

Se la presenza del veicolo è stata accertata da diverse testimonianze, gli interrogativi rimangono numerosi, a cominciare da quelli di tipo investigativo. Quando un mezzo deve essere utilizzato a fini delinquenziali, normalmente lo si ruba. Se si vuol essere ancora più sicuri di non essere rintracciati, si falsifica la targa. Tuttavia la moto non è mai stata trovata e ciò significa che probabilmente non era un mezzo rubato, altrimenti sarebbe stato abbandonato secondo la prassi brigatista, e successivamente scoperto. Forse non si voleva che la polizia risalisse al proprietario. Era tra l’altro una moto molto diffusa e noi, in Ufficio, ne utilizzavamo un modello analogo. I brigatisti hanno sempre asserito che né la moto, né chi c’era sopra, apparteneva all’organizzazione, il che sembra verosimile dato che essi non si preoccupavano di celare il volto, a differenza dei due soggetti sulla Honda. I brigatisti, combattendo in clandestinità, si collocavano apertamente come latitanti e non si ponevano il problema di essere riconosciuti. Il fatto che il volto di uno dei due occupanti della moto fosse coperto non rientrava nelle loro modalità. Nell’arco di questi anni, fino all’arrivo della lettera, la presenza della moto era ed è rimasta un inspiegato punto interrogativo.

E la lettera apre a nuove implicazioni del tutto in aspettate.

Collegare i due motociclisti con il colonnello Guglielmi, significa introdurre nel discorso del rapimento l’Organizzazione Gladio di cui Guglielmi era istruttore militare. Gladio era un’organizzazione paramilitare segreta costituita nei primi anni ’50 dagli Americani per creare una struttura di opposizione ad un’eventuale invasione sovietica. Col tempo si è snaturata in quanto continuava ad essere operativa nonostante si fosse percepito che non ci sarebbe stata nessun’invasione comunista. Ovviamente si trattava di un’organizzazione nascosta, sconosciuta addirittura ad alcuni Presidenti del Consiglio e della Repubblica, forse a causa dei legami con gli apparati statunitensi. Non escludo che Gladio vedesse con ostilità l’apertura a sinistra della politica di Moro.

Tra l’altro le vicende di Gladio finiranno per intersecarsi con il caso Moro anche diversi anni dopo.

Certo. Bisogna però tornare al 1° ottobre 1978, quando i carabinieri guidati dal capitano Arlati, per ordine del generale Dalla Chiesa, fanno un’irruzione nel covo di via Monte Nevoso a Milano e trovano dei brigatisti che stanno trascrivendo il memoriale scritto da Moro durante la prigionia. Poco dopo arriva un altro ufficiale dei carabinieri, Bonaventura, che chiede il memoriale ad Arlati dicendo di volerlo fotocopiare e portarne una copia a Dalla Chiesa. Il memoriale viene trattenuto per ore e, quando viene restituito, a detta di Arlati, mancano delle pagine. L’appartamento rimase successivamente chiuso per dodici anni. Una volta poi riaperto, nel 1990, dei muratori trovarono casualmente una seconda copia del memoriale che arrivò finalmente completa ai magistrati. Dalla comparazione con il memoriale del ‘78 si riscontra l’effettiva mancanza delle parti in cui si parla di Gladio e di alcuni scandali. La notizia ebbe grande risonanza e Andreotti decise di rendere noto al paese l’esistenza di una struttura di questo tipo, senza tuttavia rivelarne troppi dettagli.

 

 

Secondo lei ciò ha una correlazione con il sequestro di Moro?

Possibile. Tra l’altro, tutti coloro che hanno messo le mani sul memoriale sono morti, si pensi ad esempio al generale Dalla Chiesa o al giornalista  Mino Pecorelli. L’anonimo indica il motivo per cui si trovava lì, ossia accertarsi che l’azione delle Brigate Rosse non incontrasse ostacoli di alcun genere.

Non le è mai venuto il dubbio che quella lettera possa essere un falso?

Mi sono venuti, ma ho diverse ragioni per credere che non lo sia. In primis chi scrive ha una conoscenza precisa della situazione. Afferma di trovarsi lì con un altro uomo per “proteggere le BR nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere”, utilizzando un lessico militare. Mi sono interrogato molto sulla natura e sulla composizione della lettera e leggendola mi sono convinto sempre di più dell’impossibilità di elaborare dichiarazioni del genere su fantasia. Le lettere anonime fasulle solitamente sono aleatorie, mentre quelle con contenuti veritieri sono percepibili per il modo in cui sono scritte. E, inoltre, le affermazioni – generiche, ma altrettanto non travisabili – da cui è scaturita l’indagine mi hanno portato effettivamente ad un soggetto e non penso si tratti di una coincidenza o di una montatura.

Precisamente cosa affermava l’anonimo? nominava il secondo uomo?

L’anonimo afferma: “non credo che voi giornalisti non sappiate come siano andate davvero le cose, ma nel caso fosse così provate a parlare con chi guidava la moto. Da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontrarlo ultimamente. Non ne conosco il nome ma è facile da trovare”. Mi sono chiesto come fosse possibile che non si conoscessero per nome. Ho trovato le risposte nel libro scritto dal Comandante della Gladio, il Generale Inzerilli: scrive che gli appartenenti della struttura non si conoscevano, avevano doppia identità, la propria e una falsa, così da non essere riconosciuti in contesti diversi. Avevano nomi fittizi e si vedevano solo per il periodo di addestramento in cui non potevano approfondire le relazioni.

Tuttavia lei è riuscito a rintracciare l’altra persona che occupava la moto quel giorno.

Facendo le varie analisi sono arrivato all’indirizzo di quest’uomo. Lui non abitava più in quella casa pur essendone formalmente residente. La moglie mi racconta che si è traferito a Firenze. Lo chiamo, affermando di trovarmi lì per verificare se le due armi, regolarmente registrate a suo nome, fossero ancora nell’abitazione. Lui, preoccupato ma controllato nella sua preoccupazione, si mostra restio a parlarne, cosicché attacco la chiamata dicendogli di far mente locale e rivelarmi dove esse si trovassero. Poco dopo mi indica il luogo dove era tenuta la pistola Beretta, in camera da letto, ma non parla dell’altra. Pensando che non ce l’avesse più, decido di passare dal controllo sulle armi ad una perquisizione ai sensi dell’art. 41 per la ricerca di armi. Salta fuori anche l’altra pistola e subito comprendo il perché della sua preoccupazione: si trovava in una scatola con una copia della Repubblica del 16 marzo 1978 [giorno del rapimento dell’On. Moro e dell’uccisione della sua scorta] tenuta in cantina. Una combinazione non casuale né scontata, sicuramente un segno dell’interesse del soggetto per il rapimento Moro, se non una vera e propria firma sull’accaduto.

Dunque viene da pensare che Moro non fosse ostaggio solo delle BR, ma che gli interessi nel suo rapimento fossero molteplici.

C’è da dire che la situazione geopolitica di quegli anni era diversa da quella attuale e bisogna inquadrarla nella situazione internazionale italiana, dove sicuramente la contrapposizione dei blocchi russo-americano determinava gli indirizzi della politica in occidente. In questo quadro la prospettiva politica di Moro andava contro gli indirizzi del momento, anche e soprattutto del suo partito. Lascia ancor più perplessi la scelta di non trattare per salvarlo, se comparata con l’atteggiamento assunto a posteriori circa il sequestro di Ciro Cirillo, esponente di minor rilevanza della Dc, risolto con l’intermediazione della camorra e con il pagamento di un riscatto.

 

Possibile che qualcuno volesse la morte di Moro?

Il comportamento nei confronti di Moro è problematico, e ci sono due circostanze che dovrebbero essere spiegate. Il primo è il comunicato palesemente falso delle BR, il “Numero 7”, che racconta della morte di Moro – quando lui era ancora in vita – con tanto di corpo buttato nel Lago della Duchessa, a circa 1800 metri d’altezza, in provincia di Rieti, tra l’altro completamente ghiacciato in quel periodo dell’anno. Si arriva all’assurdo: con delle bombe si fa esplodere il ghiaccio del lago e dei sommozzatori cercano – ovviamente invano – il corpo. Perché questo comunicato? Era stato redatto da Antonio (Tony) Chichiarelli, esponente e falsario della banda della Magliana, organizzazione criminale operante a Roma e con noti rapporti con gli apparati di sicurezza italiani.

E’ possibile che il falso comunicato Br n.7 fosse in realtà un messaggio indirizzato alle brigate rosse stesse per guidarne le mosse e, intanto, preparare l’opinione pubblica all’uccisione di Moro, che effettivamente da lì a poco sarebbe avvenuta. In secondo luogo, rimane inspiegata l’influenza di un uomo inviato dagli Stati Uniti immediatamente dopo il sequestro, tale Pieczenik, tutt’ora vivente. Era un dipendente del Dipartimento di Stato americano, della Cia, plurilaureato e risolutore di problemi nei Paesi in crisi. Arrivato in Italia si affianca a Cossiga, Ministro dell’Interno, con un ruolo non indifferente nell’ambito del sequestro. In alcune dichiarazioni fatte nel corso di in una rogatoria dell’Autorità Giudiziaria italiana, Pieczenik ha affermato che la finalità della sua azione era condurre il Paese alla destabilizzazione – ossia la morte di Moro – perché poi tornasse a stabilizzarsi. In termini politici, con la morte di Moro si sarebbe arrivati alla massima crisi delle Istituzioni, ma successivamente si sarebbe tornati alla vecchia visione politica che, nella DC, sarebbe equivalsa ad una situazione precedente all’operato di Moro, cioè assolutamente anti comunista.

Pensa che si potrà conoscere un giorno tutta la verità?

Non lo so, forse il Paese non è ancora pronto. Il figlio di uno dei due agenti uccisi ha proposto di mettere nelle condizioni di parlare chi sa, senza sottoporli a procedimento penale. Altrimenti difficilmente i fatti verranno alla luce. Bisognerebbe barattare la verità con l’immunità. Allo stato attuale c’è ancora timore. Mi sono messo in contatto con la figlia di Moro e anche lei ha percepito che gli eventi non si erano svolti come sono stati resi noti.

Spero che i giovani comprendano che andare a scavare in questi eventi non è un semplice esercizio sul passato, ma una necessità del presente per comprendere il presente. Il rapimento Moro ha cambiato l’indirizzo del paese ed è bene tenerne conto.

 

 

 

 

Segue il testo integrale della lettera anonima spedita alla Stampa di Torino e quindi recapitata alla Digos

 

     Torino 10/10/209 (sic)

 

Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti, ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le BR nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontrarlo ultimamente, non ne conosco il nome ma è facile da trovare, è il marito della signora tiziana dipendente della pentagramma di torino via caraglio, la conosco perché in passato andavo a comprare cd di musica popolare. Tanto io vi posso dire, sta a voi deidere (sic) se sapere di più o no.

 

 

 

 

 

 

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