
Era una serata molto attesa quella in cartellone l’8 Marzo per l’Unione Musicale, sia per la caratura degli esecutori sia per l’innegabile fascino del repertorio proposto. Il palco del Conservatorio di Torino ha visto protagonisti il rinomato Quartetto David Oistrakh, composto da musicisti vincitori di numerosi premi individuali e d’assieme e ospite in tutto il mondo nei maggiori teatri e auditorium, e la pianista georgiana Elisso Virsaladze, anch’ella pluripremiata in diversi concorsi di rilievo e con alle spalle una carriera formidabile come solista, camerista, e d’ insegnante. In programma il celebre Quintetto in sol minore op. 57 di Dmítrij DmítrievičŠostakóvič, composto nel 1940, e l’immortale Quintetto in mi bemolle maggiore op. 44 di Robert Schumann, ultimato nel 1842. Entrambe pagine imprescindibili per questo tipo di formazione cameristica, si contrappongono per la differenza di stile dovuta sia alla distanza temporale (le separa quasi un secolo) sia a quella geografica: mentre una appartiene alla Russia di metà ‘900 (dunque anche da contestualizzare socialmente e politicamente come gran parte dell’opera di Šostakóvič), l’altra è frutto del pieno sviluppo del romanticismo tedesco di metà ‘800, di cui Schumann è considerato uno degli iniziatori e uno dei principali esponenti.
È stato sicuramente reso sicuramente con grande efficacia ed effetto Šostakóvič: la formazione da scuola russa dei cinque interpreti emerge fortemente dalla loro interpretazione che restituisce al pubblico un suono ricco e pieno ed un atteggiamento sempre molto attivo e frenetico, talvolta fin troppo vista la natura a tratti spiccatamente riflessiva ed introspettiva dell’opera. Convincente l’intesa del Quartetto, sempre coeso e pronto a supportare la pianista, che dal canto suo offre una prova nel complesso solida solo increspata da qualche screzio tecnico nei movimenti veloci. Tuttavia, di fronte ad un’esecuzione (quasi) perfetta rimane un po’l’amaro in bocca per il carattere forse troppo simile con cui sono stati trattati i cinque movimenti, estremamente diversi tra loro. L’intera performance è risultata quindi talvoltamanchevole di un’intensità che commuovesse il pubblico in sala.
Si allinea grosso modo a quella di Šostakóvič l’esecuzione del quintetto di Schumann. Se però per il compositore russo era in fin dei conti adatta la sfrontatezza interpretativa adottata dalla compagine, per questo capolavoro cameristico (a ragione considerato uno dei picchi geniali del compositore tedesco) la resa finale è apparsa talora stucchevole ed eccessivamente pesante. Ha fatto specie soprattutto l’assenza relativa di piani e ancor di più di pianissimi che ha inevitabilmente inficiato la gamma di dinamiche, rimasta sempre piuttosto ristretta e decisamente troppo sonora. Basti nominare la marcia funebre del secondo movimento, il carattere dolente e drammatico èsembrato troncato da una sguaiataggine fuori dalle righe nel proporre la cellula tematica, soprattutto da parte degli archi. La sensibilità della pianista per Schumann invece emerge con forza, ogni frase era sempre curatissima nel dettaglio e anche quando il pianoforte passava in secondo piano riusciva ad imprimere una direzione ed un senso al materiale. È sempre emozionante il finale, un’apoteosi contrappuntistica che riprende il tema del primo movimento e che lascia ogni voltaun senso di completezza e soddisfazione sia in chi suona sia in chi ascolta.
Leonardo Vezzadini