di Danilo Ionadi

Dalla Prima alla Seconda Repubblica non è cambiato solo l’appellativo ma il mutamento ha interessato i principali meccanismi di rappresentanza, incidendo direttamente sulla tenuta democratica del Paese. E non parlo solo delle istanze maggioritarie ed il ripudio della democrazia consociativa in nome di una non meglio definita “governabilità”. Parlo della cesura che è venuta a crearsi tra i rappresentati e i rappresentanti nelle istituzioni democratiche del Paese. Parlo del mutamento che ha interessato il ruolo dei partiti al tramonto della tanto disprezzata Prima Repubblica ed al sorgere della ragguardevole Seconda. Dal delicato ruolo di intermediazione tra elettori ed eletti, i partiti si sono via via configurati come entità autonome e separate capaci di incidere in modo massiccio e determinante sull’attività e sul ruolo dei singoli parlamentari.

Infatti è stato proprio l’abbandono dei meccanismi di democrazia interna ai partiti ed il sempre più stringente e patologico controllo di questi sull’attività parlamentare ad aver spostato il fulcro decisionale dagli eletti, e cioè i parlamentari, a pochi ed indiscutibili vertici di partito. I principali partiti della Prima Repubblica godevano di meccanismi di democraticità interna assicurati dai Congressi nazionali, in cui le varie correnti pervenivano ad una sintesi e ciò li garantiva da derive autoritarie di pochi soggetti soli ed unici titolari del potere decisionale. Il Partito socialista teneva Congressi, il Partito comunista anche e la Democrazia cristiana pure. Oggi la situazione è cambiata, sotto questo profilo in peggio, e non può più dirsi che i meccanismi di democraticità interna siano assicurati nei principali partiti dell’odierna politica italiana. Questo può dirsi, infatti (e con tutte le riserve del caso), solamente della Lega, del Partito democratico e di Fratelli d’Italia, mentre il partito che ha dominato la scena politica dal ’94 per venti lunghi anni, Forza Italia, nonché il principale partito risultato dalle ultime elezioni politiche, il Movimento cinque stelle, sono allergici ad ogni forma di democrazia e confronto interno.

Di Congressi manco a parlarne; di alternanza dei vertici a seconda della prevalenza dell’una o dell’altra corrente, eresia; di discussione interna della linea dettata dai leader, soli ed intramontabili, tradimento. Il ripudio della democrazia interna, che ha spostato il centro decisionale in capo a pochi ed indiscutibili vertici, snaturando il ruolo di intermediazione fra istituzioni pubbliche e società civile che i partiti dovrebbero ricoprire, è andato di pari passo con un controllo coercitivo dell’attività del singolo parlamentare da parte del proprio partito, svilendo e snaturando quindi non solo il ruolo dei partiti ma anche quello, previsto dalla Costituzione, dei parlamentari. Nel disegno costituzionale, infatti, i parlamentari sono rappresentanti della Nazione prima ancora che dei propri elettori. L’art. 67 Cost. esprime in modo laconico e granitico che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. La Costituzione, dunque, non solo riconosce ma impone in capo ad ogni parlamentare la necessaria libertà di azione, scongiurando ogni possibile vincolo con il proprio elettorato che possa porsi ad ostacolo per il perseguimento e la tutela dell’interesse nazionale. Detto articolo intende svincolare l’attività del singolo parlamentare dalle indicazioni del partito di appartenenza nonché dalle pressioni del proprio elettorato qualora queste si pongano in conflitto con l’interesse nazionale, relegando le conseguenze delle proprie scelte al piano della responsabilità politica davanti al proprio elettorato. Egli, infatti, è sì portatore di interessi di una quota del corpo elettorale, ma è rappresentante non già del proprio elettorato bensì dell’intera Nazione ed è all’interesse preminente di questa che deve volgere la sua azione politica.

Ebbene, una forza politica che, una volta dettata una linea sorta non già dal confronto interno bensì dalla volontà di uno o due soli soggetti quali reali titolari del potere decisionale, sanziona ogni voto del singolo parlamentare divergente dalla linea dettata attraverso non procedimenti disciplinari bensì dimissioni in bianco fatte consegnare ai neoeletti o illegittime (e dichiarate tali) penali da 100 mila (!) euro imposte contrattualmente ai parlamentari nei confronti del partito (e su questi casi non sto a ricordare gli scandali che hanno travolto il M5S), altera il corretto funzionamento democratico delle istituzioni del Paese, allontanando ancor più la contiguità tra rappresentanti e rappresentati, tra elettori ed eletti e dunque tra il popolo e le sue istituzioni. Da quanto fin qui esposto emerge con chiarezza come la tendenza a far convergere tutto il potere decisionale nelle mani di pochi vertici di partito sia un meccanismo imperante e finora inarrestabile che ha investito i principali soggetti della politica del Paese e che l’allontanamento dal disegno costituzionale in favore di uno nuovo e tutt’altro che incline alle più elementari garanzie democratiche sia andato sempre più rafforzandosi e rinvigorendosi fino ad arrivare alla riforma costituzionale volta alla drastica riduzione del numero dei rappresentanti della Nazione. È chiaro infatti, che l’unico e solo bilanciamento all’inarrestabile tendenza dei partiti (o sarebbe più opportuno dire, alla luce di quanto detto, dei vertici di partito) al controllo, patologico in termini di democrazia, dei singoli parlamentari, così svuotati di ogni potere decisionale in favore di decisioni indiscutibili (e rese tali anche attraverso i meccanismi illegali posti in essere di cui sopra) piombate dall’alto come Verbo divino, resta soltanto il numero degli eletti. Una eventuale riduzione, infatti, non potrebbe che accrescere il controllo dei partiti, e dei loro vertici!, sull’attività parlamentare a scapito di quell’”interesse della Nazione” che ogni rappresentante in Parlamento ha il dovere di tutelare, in quanto resterebbe il dovere da solo, senza tuttavia più alcuna concreta possibilità di adempiervi.

In definitiva: un ulteriore, e stavolta definitivo, allontanamento tra cittadini e parlamentari, tra rappresentati e rappresentanti, tra la società civile e le istituzioni del Paese. Non è quindi distopico attendersi un’irreversibile oligarchia del potere decisionale con la totale perdita di controllo del corpo elettorale sui suoi eletti. È, in conclusione, assurdo osservare come le spinte per il Sì al referendum siano dettate da un rancore verso “la casta”, con la volontà di punire i propri rappresentanti riducendoli di numero, mentre non ci si avvede che è proprio la pluralità ed il numero degli eletti ad essere unico contrappeso alle spinte dispotiche ed al ruolo patologicamente preminente dei partiti sui parlamentari e quindi si sigla il proprio contributo, attraverso il principale strumento democratico che si ha, l’urna elettorale, a quella stessa “casta” che oggi ci chiede di darle una mano, riducendo il numero di parlamentari e quindi alleggerendole lo sforzo di controllare che i nostri eletti si uniformino a linee politiche e decisioni dettate da pochi, a scapito di ogni libertà del parlamentare di tutelare l’interesse della Nazione. Meno parlamentari: meno soggetti che quella stessa “casta” che si vorrebbe combattere dovrà sforzarsi di aggiogare. Dopo quasi trent’anni di inarrestabile processo di trasformazione del ruolo dei partiti nel nostro Paese, il popolo è finalmente chiamato a suggellare la trasformazione dei partiti da strumento di esercizio della sovranità popolare a strumento sostitutivo di essa. Del tutto ipocrita è quindi fingere insofferenza alla “casta” se poi le si regala la nostra democrazia.

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